La figura del papà per un figlio maschio

Rapporto papà e figlio maschio: quanto è importante il ruolo del padre per un figlio? Ecco perché la figura del padre non è di fatto meno importante, nella crescita di un figlio maschio, rispetto a quella della madre

La figura del papà per un figlio maschio

Il rapporto tra papà e figlio maschio è di centrale importanza per la crescita di un bambino, anche se spesso questo legame finisce col venire banalizzato, o addirittura considerato superfluo. Il ruolo della madre (che tende, per dirla in maniera impropria ma efficace, a “rubare la scena”) è di certo prominente nei primi mesi di vita, poiché la sua figura di protettrice-nutrice fa sì che vengano a crearsi i presupposti per un rapporto simbiotico che ad uomo è di norma precluso.

Tuttavia, la figura paterna assume rilevanza centrale non solo per favorire l’emancipazione di un figlio da questo dualismo (che in presenza di situazioni morbose rischia di sfociare nel patologico) bensì fin dai primi momenti di vita di un bambino.

Essere un buon padre significa infatti anche sapere accettare un ruolo apparentemente comprimario, ma che in realtà è di importanza basilare nelle dinamiche familiari. Specialmente per un figlio maschio, per il quale l’uomo è imprescindibilmente chiamato a rappresentare il primo – nonché più importante – modello di riferimento.

Se inizialmente il bambino cerca costantemente la madre infatti, a causa del suo ruolo che si rifà prevalentemente a compiti di accudimento e di sostegno, ciò non significa che il padre debba essere spettatore passivo della situazione. Anzi, è proprio nella sua “collocazione periferica” rispetto alla diade madre-figlio che l’uomo trova il significato più profondo ed importante della propria figura genitoriale.

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Papà: un riferimento importante per un figlio maschio

Il rapporto padre-figlio è dunque di importanza centrale, ed è totalmente errato definirlo semplicemente come un “plus” di contorno che funge prevalentemente da supporto discreto al ruolo materno. Ma dove risiede in realtà la difficoltà dell’essere un buon padre? Innanzitutto, questa problematica dai contorni decisamente sfumati affonda nel sue radici sia nella biologia, sia nel contesto socio-culturale che ci appartiene. Quella della madre è infatti una figura certamente ben delineata, con compiti chiari (talvolta persino eccessivamente standardizzati) e la cui cruciale importanza per la crescita di un figlio è stata ampiamente ed unanimemente riconosciuta. Lo stesso non si può dire invece per la figura paterna, che proprio per via della sua ubicazione borderline tra il sistema chiuso familiare, ed il suo essere talvolta “legittimamente esclusa per vocazione biologica” da queste dinamiche, fatica spesso a trovare una collocazione ben precisa.

In sostanza, gli strumenti comunicativi a disposizione di un padre sembrano di fatto meno potenti rispetto a quelli che può vantare la madre. Ma è davvero così? In realtà sì, ma con riserva. Se da una parte il ruolo della madre è di fatto insostituibile, dall’altra lo è anche quello del papà (parlando sempre di situazioni ideali ovviamente, in quanto è possibile crescere un figlio in maniera sana pur essendo un padre single). Uno dei compiti più ardui dell’uomo è infatti quello di mediatore nei processi interattivi madre-figlio, ed è un’incombenza che raggiunge la massima rilevanza proprio nel suo essere “intruso“: si tratta infatti di un’interferenza, quella dell’uomo in questo dualismo, direttamente funzionale sia allo sviluppo autonomo del bambino, sia al “recupero” dal trauma dello svezzamento per la madre.

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Un buon padre dovrà dunque riuscire a trasmettere serenità alla propria compagna durante il naturale processo di distacco dal figlio, e parallelamente favorire l’emancipazione di quest’ultimo in maniera graduale. Ed è proprio all’interno di queste dinamiche che la figura del padre quale paradigma di riferimento per un figlio maschio, assurge alla posizione più elevata. Tuttavia, anche questo processo non sarà affatto privo di conflittualità. Se nei primi mesi di vita infatti il bambino non soffre la figura del papà, accettandola nella sua marginalità senza particolari angosce, viceversa col passare degli anni il figlio potrà sviluppare sentimenti contrastanti nei confronti del genitore maschio.

Anche questo è perfettamente naturale: l’elitaria esclusività della coppia coniugale – un meccanismo integrativo nei confronti del bambino soltanto fino ad un certo punto, poiché a questo non saranno mai concessi i privilegi particolari che regolano le dinamiche del rapporto padre-madre – potrà generare frustrazione nel del figlio, che sperimenterà il suo sentirsi parzialmente escluso (benché amato, ma in maniera chiaramente differente). E nello svilupparsi di questi processi, è proprio ai margini dell’adolescenza che il rapporto padre-figlio raggiunge la sua fase più delicata. Il papà sarà infatti chiamato a svolgere la duplice funzione di genitore amorevole e di primo argine educativo; si tratta di un periodo altamente probante, ma che determinerà la salubrità del rapporto tra un figlio maschio ed il suo papà.

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Uscire vittoriosi da questa sfida non è semplice, ed è di cruciale importanza un dialogo sano e continuativo. Si tratterà dunque di sviluppare un rapporto leale e sincero, pur tenendo sempre presenti i dovuti paletti che determinano la separazione della figura genitoriale da quella del figlio; una situazione comunicativa che possa sfociare in un confronto la cui conflittualità sarà funzionale alla ricerca del sé del ragazzo, ed allo sviluppo della sua autonomia non più solamente nelle vesti di figlio, ma finalmente nei panni di persona. Anche e soprattutto nella percezione che egli avrà finalmente di sé stesso come tale. Sarà proprio a questo punto che le situazioni di conflitto tra papà e figlio tenderanno a scemare – venendo interrotte quando il padre lo riterrà opportuno – per raggiungere, al termine di questo processo, la promozione di un paradigma comunicativo più maturo. Nella fattispecie, come si suol dire, “da uomo a uomo“.

La figura del papà quindi non può e non dev’essere in alcun modo ritenuta facoltativa per definizione, soltanto perché appare ad un primo esame come marginale rispetto al ruolo della madre; poiché sta proprio nella sua naturale “secondarietà” il segreto del suo successo.

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